Una Questione Piccante

Chi è il papà del "chile habanero".

In Messico questo tipo di peperoncino si coltiva da millenni.
Ma ora coltivatori
e scienziati chiedono il «doc genetico» per distinguerlo
dalle tante varietà prodotte nel mondo. E battere così la
concorrenza di Stati Uniti, India, Spagna, Brasile e Cina.

di Massimiliano Pasquariello

Chi è il papà del chile habanero, il re dei peperoncini? La
risposta sembrerebbe scontata: il Messico. Anzi, la penisola
dello Yucatan per essere precisi. Eppure la tanto agognata
doc, la certificazione che sancisce l’origine e la qualità di un
prodotto, potrebbe andare altrove.
Proprio così. Tra le nazioni papabili,
manco a dirlo, la Cina. Ma non solo.
Anche India, Brasile, Spagna e Stati
Uniti, dove la qualità del piccante frutto,
oltre ad essere pari a quella della
versione «made in Yucatan», è anche più resistente ai
parassiti. E allora a mali estremi, estremi rimedi: la doc non
basta, c’è bisogno dell’impronta genetica.

È quanto afferma il Cicy, il Centro di investigazioni
scientifiche dello Yucatan che introduce un nuovo concetto:
il dna del chile habanero. «Sfortunatamente altre nazioni
come Cina, Spagna e Stati Uniti già seminano e producono
alcune varietà di chile habanero» ha dichiarato
recentemente al quotidiano El Universal il ricercatore José
Zúñiga Peniche «e potrebbero contenderci la tanto sperata
certificazione doc. La richiesta aggiuntiva di “impronta
genetica”, una sorta di Dna, sancirebbe la definitiva
appartenza del chile habanero alla penisola dello
Yucatan». Insomma, una sorta di super-doc che tuteli la
commercializzazione dell’habanero e quindi la
sopravvivenza delle oltre 2.000 famiglie che, nel solo stato
dello Yucatan, dipendono dalla coltivazione del
peperoncino super piccante.

Così, i produttori di Yucatan, Campeche e Quintana Roo,
insieme alle autorità scientifiche, si sono uniti per richiedere
una più celere approvazione della doc da parte dell’Impi, l’
Istituto messicano della proprietà industriale, e per
suggerire il riconoscimento genetico degli arbusti yucatechi.
Per molti coltivatori della penisola infatti, oltre che una
certificazione di qualità, si tratta di un atto di giustizia: il
chile habanero è nato in Messico, è uno dei suoi simboli e
non può essere riconosciuto come un prodotto europeo o
asiatico.

Una terra, quella del sud del Messico, dove la coltivazione
del piccante arbusto è una tradizione che si tramanda da
generazioni e sulla quale campano migliaia di persone. Nel
solo stato dello Yucatan, circa 600 ettari sono seminati ad
habanero e, ogni settimana, vengono esportate circa 10
tonnellate di prodotto. La produzione annuale è di 3.400  

tonnellate di cui il 25% è destinato ai mercati esteri.

Ma il piccante habanero, che ricorda un po’ i sapori della
nostra Calabria, non è usato solo in cucina. La capsaicina
infatti, la sostanza contenuta nell’habanero, con un potere
irritante superiore del 95% a quello di qualsiasi altro
prodotto, viene usata nella fabbricazione di gas
lacrimogeno. Inoltre, secondo studi medici condotti all’
Università della California su alcune cavie da laboratorio, la
capsaicina sarebbe in grado di uccidere l’80% delle cellule
tumorali responsabili del cancro alla prostata. L’habanero
infine, è anche usato nella produzione di vernice
anticorrosive per imbarcazioni oltreché nell’industria
farmaceutica e cosmetica.
Insomma, il peperoncino riconosciuto tra i più piccanti del
pianeta, deve rimanere messicano. Che ne sarebbe
altrimenti di un mondo dove l’habanero è cinese e magari il
parmigiano è statunitense? Ad ognuo il suo.

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